Un desiderio di comunicazione pubblica “conversativa”
I comunicatori pubblici – che volevano essere ascoltati dai cittadini – vogliono essere ascoltati! Questo intervento è stato scritto in vista della 13° edizione di Europcom-Conferenza europea sulla comunicazione pubblica, organizzata dal Comitato europeo delle regioni), della cui membership l’autore è parte, programmata per il 28 ottobre 2022 (online con interpretazione).
Philippe Caroyez – Sociologo, consigliere della Direzione Generale per la Comunicazione esterna della Cancelleria del Primo Ministro belga, già direttore del Servizio Federale Belga di Informazione. Membro del Club di Venezia (pubblici comunicatori dei governi europei) dal 1992, editorialista ed editore della rivista del CDV Convergences. Membro dell’advisory board di EuroPCom, di cui è stato uno dei fondatori nel 2010.
I comunicatori pubblici rispondono solo indirettamente alla “domanda sociale”, soggetti come sono al comando politico. Ed è proprio così, in un sistema democratico in cui le autorità elette o incaricate assicurano di considerare l’interesse generale (che non è da confondere con quello del maggior numero) e di percepire e trattenere (se vogliono percepire e trattenere) istanze e segni che emergono dalla società e dalle sue componenti.
Sarebbe, però, molto povero e disincarnato, il lavoro di comunicatore pubblico, se chi ne ha l’esercizio e la responsabilità non avesse a cuore di interessarsi alla domanda sociale, cioè ai modi di farla emergere e di renderla intelligibile[4], ascoltarla e aiutare a soddisfarla attraverso proposte e soluzioni nel suo campo di competenze e di azioni professionali.
A questo proposito, i comunicatori saranno tanto più efficienti (a volte anche disturbanti) se i loro compiti verranno svolti con professionalità ed etica e se sapranno sfruttare la ricerca sociologica e le esperienze pratiche delle loro controparti.
Questo aspetto essenziale si basa, in particolare, su:
- impegno per il servizio pubblico e la ricerca del suo costante miglioramento;
- desiderio di comprendere e conoscere le pratiche sociali e i bisogni che esse comportano per essere informati e ascoltati sulle esigenze sociali;
- feedback riflessivo e critico sulle nostre azioni di comunicazione;
- una comunità e una rete professionale nella condivisione di conoscenze ed esperienze.
Coltivare una piena coscienza umanistica per le nostre professioni di comunicazione pubblica.
Ognuno la vive e la fa vivere a modo suo, con i propri mezzi, al proprio livello, più o meno con costrizioni o appoggi, ma c’è qualcosa per chi vuole (o per chi può, siamo onesti) nutrire una piena coscienza umanistica per le nostre professioni di comunicazione pubblica. Parafrasando Jean-Paul Sartre, la comunicazione pubblica (ovvero il suo “bell’esercizio”) deve essere una forma di umanesimo.
Quello che cambia è che non cambia nulla (o, per lo meno, cambia così poco)
Al di là delle nostre azioni, nelle nostre professioni e servizi, tutti noi (nel bene e nel male) gestiamo un “trend watch”, le tendenze sul lavoro, gli aspetti di emergenza. Queste tendenze si riscontrano anche nelle azioni innovative che vengono introdotte dalle controparti o, va detto, in settori commerciali, come il marketing. Sono anche oggetto di ricerche specifiche svolte da accademici o loro omologhi. Si tratta, ad esempio, di scienze comportamentali e di “logiche” decisionali (con queste spinte, questi spostamenti, eccetera). E poi molto altro: intelligenza artificiale, chatbot, strategia dei contenuti (e relativo design). E ancora: la cosiddetta comunicazione “conversazionale”. Alcuni anni fa, i nostri colleghi olandesi ci hanno mostrato in un certo senso la strada. Cogliendo l’opportunità di un dibattito ufficiale sulla comunicazione pubblica nel loro paese, hanno svolto ricerche per identificare tendenze in evoluzione che si prestavano ad essere incorporate nella loro politica. Laddove altri avrebbero enfatizzato le “aspettative dei cittadini” (cosa che hanno fatto anche loro), un’enfasi particolare è stata riservata alle condizioni della comunicazione pubblica e al suo sviluppo per mettere al centro il tessuto relazionale del problema.
Le nostre azioni includono anche la tendenza al “tutto sul web” e l’effetto quasi magico dei (cosiddetti) social network, arrivando a progettare una “diplomazia digitale” che possa far trionfare McLuhan, quando il mezzo diventa il messaggio. L’evoluzione tecnologica, nei mezzi di comunicazione, è certamente (e vorrei aggiungere sempre) un fattore evidente di cambiamento sociale. Ma, come spesso avviene (si veda l’evoluzione delle “radio libere” e delle televisioni comunitaria), non è la panacea per risolvere la questione ultima del rapporto tra i cittadini e tra cittadini e autorità pubbliche. La cosa principale non è quindi una servile soggezione alle tecnologie, ma l’integrazione evolutiva che dobbiamo farne nelle nostre politiche di comunicazione e nel dibattito pubblico, dotandole di un necessario quadro di valori. Attraversiamo un momento in cui l’intelligenza artificiale sta aprendo nuove prospettive in quest’area. Per cui l’imperativo rimane lo stesso.
È anche degno di nota come si siano succeduti sviluppi recenti (ovviamente anche nei nostri circoli) a partire da un certo entusiasmo per sostituire finalmente – a volte cautamente, ma anche con sempre maggiore sicurezza – l’interesse per i problemi della disinformazione e circa la difficoltà di contrastarli e di legiferare in materia, sul data mining e sullo sfruttamento dei dati personali con l’introduzione molto febbrile del GDPR. E nel merito – su queste basi – sulla manipolazione delle nostre opinioni e del dibattito pubblico.
Se tutto questo è così, restiamo convinti che le questioni “reali” della comunicazione pubblica siano e rimangano più profonde (e, forse, troppo poco affrontate):
- a monte – l’indispensabile educazione civica e mediatica, con sostegno pubblico a media indipendenti e di qualità;
- al centro – privilegiando il rapporto tra il cittadino e lo Stato sulla base di valori umanistici tesi a ottenere fiducia;
- sempre – mantenere e approfondire (a volte con, a volte di fronte a queste nuove tendenze) l’impegno per una comunicazione di servizio pubblico che deve essere performante.
Quest’ultimo imperativo richiede, in un contesto di vincoli di bilancio, di cui i nostri servizi sono generalmente tra i primi interessati, un’organizzazione dinamica in grado di far fronte e comunque di integrare cambiamenti o sviluppi.
I cittadini vogliono essere ascoltati!
L’evoluzione della comunicazione pubblica è intimamente legata all’evoluzione stessa delle politiche pubbliche (talvolta è pure viceversa). È il caso delle consultazioni avviate da autorità o servizi pubblici nell’ambito del processo decisionale o dell’orientamento da dare loro. Queste consultazioni pubbliche “moderne” risalgono in realtà agli anni ’80 e hanno conservato fino ad oggi il loro carattere originario: formali e limitate, spesso garantite dalla legge, organizzate come un processo amministrativo o legislativo, in casi specifici di particolari aree (territorio di sviluppo, equipaggiamento pubblico, ambiente, ecc.). In questo contesto, il ruolo dei comunicatori pubblici e della comunicazione pubblica è rimasto strumentale, a torto e spesso con effetti pregiudizievoli per le stesse autorità pubbliche.
Nel tempo, la frattura osservata tra politica, istituzioni pubbliche e cittadini, che si è manifestata in fenomeni noti (astensionismo, ascesa dell’estrema destra, perdita di fiducia nei confronti di politici e di istituzioni) ha portato a cercare di mettere in atto misure volte a portare le autorità più vicine ai cittadini. Anche in questo caso è stata richiesta la comunicazione pubblica, parallelamente a disposizioni (spesso normative) quali la trasparenza dell’amministrazione, l’accesso agli atti amministrativi, i servizi di mediazione, la pubblicità “attiva” imposta alle istituzioni pubbliche, gli “sportelli pubblici” (punto unico di contatto, casella postale, call center e numeri telefonici cosiddetti “verdi”), e la presunta mutazione indotta del “cittadino” in “cliente del servizio pubblico”! È anche l’età dell’oro delle grandi (e costose) campagne informative sui media tradizionali e sui cartelloni pubblicitari.
Anche se si tendeva – in linea di principio – a voler arricchire la democrazia rappresentativa con una dose di democrazia partecipativa, rare e spesso laboriose (lo erano e lo sono tuttora) possono dirsi le iniziative di partecipazione reale. Inoltre, sono sempre state confinate ai livelli (solo) territoriali, certo quelli più vicini ai cittadini e alle associazioni, ma anche i più piccoli. Fatta eccezione per il referendum (peraltro non presente in tutti i paesi dell’Unione), sono rare le iniziative di consultazione dei cittadini assunte dalle pubbliche autorità che riguardano temi di rilevanza nazionale: l’unica cosa che viene in mente è la consultazione britannica sulla riforma del sistema sanitario nazionale.
A questo proposito, per usare la frase irrevocabile di Pierre Rosanvallon: “la democrazia è incompleta”. E, così, oggi si levano sempre più voci (fuori e fuori degli organi intermediari e dei tradizionali gruppi di pressione) che chiedono di essere ascoltate e di partecipare alle decisioni di fronte a una tassa sui carburanti (argomento all’origine del movimento di “giubbotti gialli”) o a favore di misure radicali di fronte alle problematiche ambientali (all’origine di molti movimenti, in particolare studenti delle scuole superiori, o comunque movimenti destrutturati in Europa).
Per un’ecologia della comunicazione pubblica
Se poniamo il campo della comunicazione pubblica nell’intersezione tra il potere statale e il corpo sociale che esso rappresenta, amministra e domina (in parte), che è solo una visione (falsa, ma eloquente) della mente – sul modello canonico della comunicazione – deduciamo che la formazione e l’evoluzione di quest’ultima dipendono da questi due poli, dai loro stati e dalle loro evoluzioni. E questo, più fondamentalmente di quanto non dipendano, come si legge troppo spesso, dal solo sviluppo (o meglio dalla trasformazione) delle cosiddette tecniche e tecnologie di comunicazione. Questi ultimi – come la fusione tra digitale, audiovisivo e un certo networking globalizzato – giocano sicuramente un ruolo importante. Ma, ripresi dall’ideologia tecnicista (presente fin dall’inizio dello studio dei fenomeni comunicativi), vi poniamo troppa enfasi o come unici fenomeni esplicativi, o (peggio) come le uniche soluzioni da considerare, ad esempio, nell’ambito della riflessione sull’evoluzione dei nostri servizi.
Questo è ciò che riassume perfettamente Dominique Wolton, quando scrive “ Finalmente nella comunicazione, il più semplice resta dalla parte dei messaggi e delle tecniche, il più complicato dalla parte degli uomini e delle società “, nel suo libro Informare non è comunicare. Piuttosto che sollecitare la tecnologia e investire in essa così tanto, sarà necessario, pur in modo più modesto ma più fondamentale, che i comunicatori pubblici (sempre sotto la guida e al servizio delle loro autorità) mettano in discussione il rapporto tra potere e governati, e dominino la tecnologia per rafforzare questo legame.
Per un momento, usciamo dalle catene di ciò che sappiamo fare meglio, ma anche più faciolmente.
In un momento in cui si evidenzia la necessità di democrazia partecipativa e sviluppo sostenibile (nelle nostre società), i comunicatori pubblici devono avere il coraggio di fare queste osservazioni, di imparare da esse e di aiutare le loro autorità a progettare una vera trasformazione della comunicazione pubblica e delle professioni e dei servizi ad essa preposti. Si tratta di passare dall’informazione alla comunicazione e di essere creatori dei nessi. Per un momento, usciamo dalle catene di ciò che facciamo (meglio, ma anche più facilmente) – i mestieri di produttore, relatore e emittente di informazioni – per (ri)ripartire da un foglio bianco. Anche se i nostri servizi hanno un ruolo di primo piano da svolgere, in linea di principio le scelte in questo ambito possono essere compiute solo attraverso un vero dialogo attuato tra politici (autorità) e cittadini, imprenditori, enti intermediari e associazioni. In qualche modo tra l’evidenza, la necessità, l’utilità sociale e una certa utopia. Ciò comporterebbe fare cose che forse facciamo troppo poco. Tipo:
- coinvolgere cittadini, imprenditori, enti intermediari e associazioni nella definizione e valutazione di politiche, obiettivi e mezzi di comunicazione;
- introdurre indicatori di performance basati sulla comprensione, sul soddisfacimento dei bisogni, sulla gestione e sul soddisfacimento delle richieste, sull’utilità sociale, sulla nozione di rapporto qualità-prezzo, eccetera, per passare dai dati alla gestione del loro impatto;
- valutare molto da vicino tutte le azioni di comunicazione così come tutte le politiche pubbliche;
- favorire una comunicazione inclusiva, senza stereotipi o discriminazioni (compreso l’accesso alle informazioni);
- fare della professione e della funzione di comunicatore pubblico una delle “professioni di collegamento”;
- nessuna informazione senza una comunicazione efficace (capacità di dialogo, impegno a rispondere alle richieste, assistenza, no digital divide, staffetta e follow-up con le autorità interessate, ecc.);
- “ripulire” la comunicazione, compresa la comunicazione pubblica, nel senso di muoversi verso una comunicazione eco-responsabile e contribuire al dibattito sulla limitazione della pubblicità commerciale e dell’inquinamento pubblicitario;
- non produrre nulla che non sia stato preventivamente approvato da un panel rappresentativo degli interessati (secondo meccanismi di consultazione da mettere in atto);
- sostenere la definizione di una politica generale di comunicazione a livello centrale e di un chiaro quadro legislativo, etico e deontologico.
Questo intervento è stato scritto in vista della 13° edizione di Europcom-Conferenza europea sulla comunicazione pubblica, organizzata dal Comitato europeo delle regioni), della cui membership l’autore è parte, programmata per il 28 ottobre 2022 (online con interpretazione).
[1] Cfr. in particolare: Robert Castel, Sociologia e risposta alla domanda sociale, rivista Sociologie du Travail, n.2, vol. 42, aprile-giugno 2000, p. 281-287. [2] Dominique Wolton, Informare non è comunicare, Edizioni CNRS, Parigi, 2009, p. 11.